I “giovani” sono svogliati e i “vecchi” arretrati? Facciamo il punto

I “giovani” sono svogliati e i “vecchi” arretrati? Facciamo il punto

Soprattutto in passato, il concetto di dedizione verso la professione è sempre stato sinonimo di orari di lavoro non definiti, fatica e abnegazione, a scapito della vita privata.

Se da un lato l’impegno e la dedizione sono indubbiamente delle qualità da coltivare in ambito professionale, le ore di lavoro extra sono effettivamente un corretto strumento di misurazione?

Oggi le opinioni in rapporto a questi temi sono contrastanti, anche nel mondo dell’Informazione Scientifica.

La visione aziendale tradizionale

Capita di incontrare realtà del settore che chiedono agli Informatori di “sposare l’azienda”, mettendo in chiaro sin dal primo colloquio le proprie intenzioni.

Giocare a carte scoperta è apprezzabile in termini di trasparenza ma, trovarsi ad un appuntamento in cui qualcuno che incontriamo per la prima volta mette sul tavolo questo ambizioso obiettivo, può suonare più come un vincolo che come un’opportunità. Soprattutto se i valori delle parti coinvolte sono diversi.

Questo concetto è figlio di una cultura più tradizionale in cui si instaura un rapporto professionale che punta a durare un’intera vita. Si tratta, infatti, di una visione del mondo del lavoro che sta lentamente perdendo il proprio fascino agli occhi delle nuove generazioni. Ad oggi, di contro, si parla del fenomeno del job hopping ovvero l’abitudine di cambiare lavoro ogni due anni, ampiamente diffusa e accettata negli Stati Uniti, malvista invece in Italia.

Non di rado, infatti, la continuità professionale è uno dei parametri che portano le aziende a scartare candidature potenzialmente valide, a fronte di esperienze lavorative frammentate e cambi frequenti. Dall’altro lato, alcune persone vedono nel cambio di lavoro un’opportunità di crescita sia in termini economici o di carriera, sia in termini di competenze. Le due visioni sono quindi opposte già in partenza.

Un’altra riflessione di stampo nostalgico che capita di sentire è la seguente:

Quando ho iniziato io a fare l’Informatore Scientifico si usciva di casa alle 6 di mattina e si tornava a mezzanotte. Adesso invece nessuno ha più voglia di lavorare.

Sembra che emerga un passato “romanticizzato”, in cui il valore del duro lavoro era al centro della vita dell’individuo in contrapposizione a un presente in cui le persone non sono disposte al sacrificio.

Questo cambio di mentalità si ripropone anche in un’altra analoga domanda che le persone sollevano in fase di selezione, così come emerso recentemente nel corso di un confronto con un’azienda:

la prima cosa a cui sembrano interessate le persone è l’orario di lavoro. Perfino la retribuzione passa in secondo piano.”

Se fino a qualche anno fa la domanda tabù era quanto si guadagna? Adesso sembra essere cambiata in quanto si lavora?

Come già abbiamo affrontato in un editoriale, sembra che qualcosa non vada per il verso giusto nel rapporto tra aziende e informatori, soprattutto in rapporto a questo cambio in termini di leve motivazionali e valori.

Il contrasto generazionale

Il problema sembra proprio legato ad un contrasto generazionale, causa delle differenze nei valori, nella cultura e nelle abitudini di lavoro tra le diverse generazioni.

Le idee e l’approccio al mondo professionale in molti casi viaggiano su binari opposti, con punti di vista discordanti su cosa significhi essere produttivi e su come coniugare questo aspetto con il proprio equilibrio vita privata-lavoro. Quest’ultimo punto è diventato oggetto di riflessione solamente in tempi relativamente recenti.

In passato, le aziende non erano solite mettere in atto strategie per garantire il work-life balance, dunque la questione non si poneva in partenza in quanto non vi era possibilità di scelta. La leva principale restava quella economica.

Oggi, invece, realtà attente al benessere dei collaboratori, inclusi gli Informatori, sono presenti anche in Italia. Per questa ragione, soprattutto le persone più giovani che si affacciano sul mercato del lavoro per trovare una posizione migliorativa, in alcuni casi ricercano proprio questo tipo di “benefit” di stampo non economico.

Gap generazionale o problema di comunicazione?

Come è normale che sia, il mondo del lavoro di oggi è nettamente diverso da quello di 5 o 10 anni fa e, con buona pace dei nostalgici, cambierà in maniera sempre più profonda.

Considerare a priori i più senior come arretrati così come bollare i più giovani come svogliati non è, forse, la strada corretta da percorrere. A mancare in molti casi è uno sforzo concreto in termini di comunicazione da entrambe le parti, che finiscono per giocare a braccio di ferro, maldisposte a scendere a compromessi o a mettere in discussione le proprie visioni.

Soprattutto tra aziende e candidati, questo tiro alla fune è evidente. Tuttavia, è bene sempre ricordare che, a tendere, non sarà più possibile evitare un necessario confronto per arrivare ad una reciproca comprensione, cercando di valorizzare al meglio sia le visioni tradizionali sia quelle più progressiste.

Autore: Cristina Musumeci



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